Fino a pochi anni fa abitavo in un quartiere di Milano caratterizzato dal grigiore e dalla puzza di smog, per carità, non che fosse solo grigio e soffocante, però lo era abbastanza da essersi guadagnato il titolo di “Asfalto e tristezza”.
Le giornate passavano lentamente, identiche fra loro. Ero al terzo anno di liceo e un giorno, durante una lezione di storia dell’arte, guardando l’insegnante ebbi la sensazione di conoscerla molto bene, e non perché storia dell’arte la facessimo dalla prima, ma perché spiegava con i piedi ben radicati al terreno, immobile dai piedi alle spalle, mentre le braccia e le mani si muovevano come rami al vento e le guance arrossivano come le foglie con l’arrivo dell’autunno: era un albero, quando insegnava, diventava albero.
Non è un caso che guardiamo agli alberi per imparare, gli alberi vivono anni, secoli, a volte anche millenni, non si abbattono mai, li buttiamo giù noi, forse perché invidiosi della loro capacità di restare impassibili alle pressioni della società.
Fin dall’antichità gli alberi sono stati il luogo, se non l’essenza stessa della sacralità della vita. Le comunità indigene ne hanno sempre avuto un grande rispetto in quanto, essendo parte della natura, sono guide su come si sta al mondo, su come fare per coesistere e continuare ad esistere.
I nativi americani si sentono legati e quasi un tutt’uno con la foresta, sono consapevoli che ogni essere vivente, attraverso l’atto dolce gentile e purificatorio della morte, torna dalla propria madre terra, per poi rinascere in albero.
Il tema della morte è ricorrente in tutti quei culti che in qualche modo venerano gli alberi.
In Russia, l’abete, simbolo natalizio per eccellenza, è visto come punto d’incontro fra vivi e morti. Si pensa che negli aceri risiedano le anime delle persone in attesa di rinascere.
Durante il paganesimo le betulle erano considerate le dimore delle anime delle ragazze morte in tenera età. Camminare in un bosco di betulle, toccarne la corteccia, bastava per ritrovare un senso di felicità e sentirsi in sintonia con la terra: accettare che il dono della vita non dura in eterno ma viene dato di continuo.
Un regalo da ricevere ogni primavera se si tratta di fiori, in Giappone i ciliegi fioriscono una volta l’anno, tra fine marzo e inizio aprile, ogni primavera è “Hanami”: si ammirano i fiori, apprezzandoli il più possibile, perché si sa che non torneranno fino alla primavera successiva. Ammirare la bellezza e la transitorietà della fioritura è un gesto che non riguarda solo i ciliegi, intorno al diciassettesimo secolo, l’imperatore soleva portare i suoi funzionari e cortigiani ad ammirare la fioritura dei susini e in quell’ occasione si rifletteva su temi semplici ma densi di significato: sulla melanconia, sulla luce, sulla solitudine, sulla morte e sull’amore.
Se noi fossimo alberi sapremmo crescere senza fare rumore, allungare le nostre radici come l’Algarrobo, fino a trovare l’acqua, se fossimo una Ceiba nemmeno il vento ci butterebbe giù.
Non siamo alberi, ma in noi esiste un gruppo genetico identico al loro, forse quel gruppo che si rivela quando cerchiamo di insegnare storia dell’arte e forse, se ancora non lo abbiamo ritrovato in noi, è meglio iniziare a crescere, prima che la primavera diventi estate.
Davvero molto interessante, grazie!
Complimenti Miki, una disamina toccsnte e profonda, sinonimo di sensibilità e bellezza, grazie.Ivan
Un giorno spero non troppo lontano riusciremo a comprendere ciò che gli alberi cercano di comunicarci! Loro vorrebbero aiutarci a superare le nostre debolezze e difficoltà ma si rendono conto che il cammino è ancora lungo. Abbiamo passato troppo tempo distratti da noi stessi e non riusciamo più ad ascoltare il loro messaggio, ne percepiamo solo una piccola parte e non basta! La speranza è che non sia troppo tardi per noi è che in futuro nuove generazioni se ne rendano conto prima! Non possiamo escluderli più dalla nostra esistenza ma lasciare a loro la nostra evoluzione.